Watson e lo squalo

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È stata finora un’annata relativamente tranquilla dal punto di vista degli attacchi di squalo all’uomo, quindi per non annoiarci troppo dovremo fare un piccolo salto all’indietro. Al 1749, per l’esattezza. Nel porto dell’Avana si consuma un evento raro eppure destinato come altri a sicuro oblio, non fosse per una serie di circostanze a loro modo eccezionali che ne faranno addirittura il soggetto di un’opera d’arte.

Brook Watson aveva quattordici anni ed era stato di recente arruolato dallo zio, ricco mercante bostoniano, a bordo di una delle proprie navi operanti sulla tratta delle Indie Occidentali. La passione del giovane orfano per il mare sconfinava spesso nell’incoscienza tipica della sua età, ma, sebbene i marinai più esperti conoscessero bene i rischi posti dagli squali in mare aperto, concedersi una nuotata all’interno delle tranquille acque di un porto trafficato come lo scalo cubano poteva sembrare un veniale peccato di gioventù.

Fu probabilmente uno squalo tigre a ghermire per due volte il ragazzo per il piede destro: durante il primo attacco, trascinò la vittima sott’acqua e strappò la carne dalla gamba all’altezza del polpaccio; al secondo approccio, l’animale tentò ancora di trascinare Brook verso il largo, quasi affogandolo e recidendo l’arto appena sopra la caviglia. I compagni, che attendevano a bordo di una scialuppa, si lanciarono immediatamente al salvataggio, riuscendo ad allontanare lo squalo con un arpione e a recuperare il giovane ormai quasi esanime.

Fin qui, come detto, un evento eccezionale ma anonimo, che avrebbe potuto risolversi in una piccola tragedia che la storia avrebbe presto provveduto a cancellare. Eppure, le cose non andarono così. Brook Watson sopravvisse e, nonostante l’amputazione della gamba destra al di sotto del ginocchio, dopo tre mesi di convalescenza in un ospedale dell’Avana si era completamente ristabilito. Una circostanza “miracolosa” secondo lo storico della medicina Gordon Bendersky: se si considerano la grande perdita di sangue ed il conseguente shock, il quasi affogamento ed il rischio di infezioni post-traumatiche e post-operatorie, le probabilità di sopravvivenza si sarebbero dovute aggirare attorno all’1%.

Ma il giovane Brook si salvò. E sebbene i suoi giorni da marinaio fossero precocemente finiti, i successi che la vita gli riservò furono enormi: dopo una distinta carriera militare, seguì le orme dello zio divenendo un ricco mercante. Trasferitosi a Londra, fece poi carriera politica: fu membro del Parlamento dal 1786 al 1794, ed eletto sindaco della capitale britannica nel 1796; divenne infine direttore della Banca di Inghilterra. Quando nel 1803 fu nominato baronetto, volle che il proprio stemma facesse esplicito riferimento all’attacco subito più di cinquant’anni prima: sopra il motto “Scuto Divino” (‘sotto la protezione di Dio’), all’apice dello scudo è rappresentato Nettuno, dio del mare, armato di un tridente con cui respinge uno squalo, mentre nel settore superiore sinistro dello stemma è posto in bella vista il piede reciso. Ai nostri occhi può apparire un’ironia involontaria; d’altra parte la storia di quanto avvenuto all’Avana era ben presente nella mente di Watson almeno quanto era sotto gli occhi di tutti per le sue conseguenze, come dimostra questo componimento satirico scritto da un suo avversario politico:

«Oh! Had the monster, who for breakfast ate

That luckless limb, his noblest noddle met,

The best of workmen, nor the best of wood,

Had scarce supply’d him with a head so good.

 

[Oh! Se il mostro, che mangiò il mesto arto a colazione,

Avesse scelto invece il ben più nobile zuccone,

Né i migliori falegnami, neppure il miglior legno

Avrebbero fornito un rimpiazzo tanto degno]».

 

L’incontro con il pittore John Singleton Copley, oggi riconosciuto come uno dei principali esponenti dell’arte americana del periodo coloniale, avvenne in Inghilterra probabilmente nel 1774, quando Watson era già un rispettato rappresentante della borghesia londinese; e non passò molto tempo prima che quest’ultimo decidesse di commissionare all’artista l’opera che avrebbe dovuto dare eterno lustro all’avvenimento che aveva cambiato la sua vita. Il ricordo dell’attacco ossessionava Watson, e farne il soggetto di un quadro aveva forse intenti esorcizzanti prima ancora che celebrativi.

Comunque sia, l’opera di Copley venne esposta alla Royal Academy di Londra nell’Aprile del 1778, accompagnata da un dettagliato resoconto giornalistico, si pensa scritto da Watson medesimo: l’intento, vagamente sensazionalistico, era quello di rassicurare il pubblico inorridito circa l’epilogo felice di un episodio tanto tragico e sconvolgente. «Jaws of Death» fu la definizione utilizzata da “The Public Advertiser”: e in effetti, la spettacolarità della composizione avrebbe garantito al quadro e al suo autore una fama duratura. “Watson and the Shark”, questo il nome dell’opera, un olio su tela che alla morte di Watson fu lasciato in dono al Christ’s Hospital nel Sussex con l’auspicio del proprietario che si dimostrasse «a most usefull Lesson to Youth», è conservato dal 1963 alla National Gallery of Arts di Washington.

Ora, Copley non visitò mai L’Avana, né probabilmente ebbe mai modo di vedere uno squalo dal vivo (il che, come vedremo, appare chiaro nei tratti con cui è reso l’animale) e tuttavia, come sostiene lo storico dell’arte Marco Bussagli, l’ispirata vitalità della rappresentazione ne fa un’opera singolare, la cui sorprendente freschezza rimarrà sconosciuta agli artisti europei, che mai avrebbero scelto un simile soggetto da tradurre in pittura, almeno fino al capolavoro di Géricault “La Zattera della Medusa”, del 1819. La composizione della scena, seppur non esente da qualche ingenuità romanzesca tipicamente americana, è tuttavia pienamente rispondente al gusto dell’epoca e in particolare ai canoni neoclassici che caratterizzano la carriera europea di Copley, a partire dal suo viaggio in Italia del 1774.

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Théodore Géricault, Zattera della Medusa

La novità dell’opera, sulla scorta di maestri quali Benjamin West e Sir Joshua Reynolds, sta nell’attribuire la grandiosità dei modelli antichi e rinascimentali ad una scena moderna, nobilitandone così il contenuto; in questo senso, “Watson and the Shark” è un vero e proprio dramma contemporaneo infuso di una grazia classica. Ne sono esempio i numerosi rimandi interni alla tradizione occidentale: dai marinai tesi verso il giovane, ripresi dalla “Pesca miracolosa” di Raffaello, all’uomo con l’arpione, sorta di moderno San Giorgio intento ad uccidere il drago, fino allo stesso Watson, rappresentato come un eroe ellenistico, memore di modelli forse osservati dall’autore a Roma quali il Gladiatore di Agasias di Dositeo (oggi conservato al Louvre) ed il celebre Laocoonte dei Musei Vaticani, che si divincola dalle serpi come il giovane Watson sembra divincolarsi nell’acqua scura, nella quale il sangue della ferita è appena accennato.

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Raffaello, Pesca miracolosa
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Laocoonte e i suoi figli
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Rubens, Giona gettato in mare

In una continua dialettica tra passato e presente, la composizione nella sua interezza pare rifarsi ad una scena biblica, ispirata in particolare da opere come il “Giona gettato in mare” di Rubens. Sebbene poi lontano dalla semplicità compositiva della propria fase giovanile, Copley restava innanzitutto un grande ritrattista, e ciò è mostrato dalla chiara individualità dei personaggi. Un grande ritrattista peculiarmente americano, capace di inserire per la prima volta un afroamericano tra gli eroi della scena.

E tuttavia, come suggerisce il critico letterario Francesco Dragosei, forse le cose non sono così semplici. Leggiamo: «Nell’acqua diafana e immateriale, Watson, implausibilmente nudo, ha un incredibile corpo morbido e roseo, abbagliante di inerme innocenza offerta allo squalo che si accinge a divorarlo. È un angelo? Non sappiamo. La sognante tenerezza delle sue carni ci induce a sospettarlo. Di sicuro invece sappiamo che lo squalo che lo sta per divorare non è uno squalo, ma l’essenza stessa del male. Nero, con occhio dannato e fauci infernali, esso è la personificazione del male del mondo che si accinge a distruggere l’innocenza. E non basta. Osservando con attenzione le enormi labbra sensuali del mostro, abbiamo la sensazione che esse rimandino piuttosto allo stereotipo di un africano che a uno squalo; che la scena raffigurata da Copley ci dica involontariamente qualcosa anche sul rapporto che i nuovi arrivati vanno stabilendo con gli schiavi deportati dall’Africa. Forse i tratti singolarmente femminei (virginali?) di Watson da un lato, e la marcata “negritudine” dello squalo dall’altro sono anche una proiezione (inconscia) del terrore dello stupro della donna bianca da parte del nero (e da parte dell’indiano che invade la casa del colono)».

Il vero africano del giovane inconscio americano, sostiene Dragosei, è dunque sotto la barca, non dentro di essa. Un’interpretazione suggestiva, anche considerando che la figura del marinaio nero, ricalcata da un precedente studio per una “Head of a Negro”, era stata inizialmente pensata dall’artista come un uomo bianco dai capelli lunghi (così hanno rivelato le analisi agli infrarossi). Ma forse è troppo leggere tanto a fondo nei pur evidenti errori anatomici nella rappresentazione dello squalo; la presenza di labbra e narici ansanti, il numero spropositato di denti e la posizione frontale degli occhi: anche in questi aspetti, Copley potrebbe essersi rifatto ai modelli della tradizione, in particolare alle immagini della trattatistica scientifica, sopperendo alla scarsità di informazioni con l’aggiunta di altri dettagli che donassero veridicità alla scena: uno su tutti, la presenza, oltre la preromantica foresta d’alberi maestri del porto, del Castillo del Morro, fortezza che domina L’Avana. Sicuramente resta la volontà di cogliere al massimo della sua intensità drammatica un evento tanto insolito quanto decisivo per quel giovane innocente, sia egli o meno celebrato come simbolo dell’America intera, che ci permette ancora oggi di divertirci con questa breve scorribanda all’intersezione tra natura e cultura.

 

Bibliografia:

  1. Francesco Dragosei, Lo squalo e il grattacielo, Il Mulino;
  2. Marco Bussagli, Arte americana 1620-1913, Giunti.

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